10 6 maggio – 6 luglio 2010 – Da Calcutta (India) a Burimani (Bangladesh)

Fotografie: 10-13 maggio Khulna centres + PIME hospital ; 15-18 maggio Sakthira Villaggio Munda + intervista DeshTV ; 15 maggio Sakthira Visita centro Rishilpi ; 21 maggio 16 giugno: Sakhtira – Chittagong – Bongshpur ; 6-18 giugno Scuola gruppo etinico Munda, Isshadipur ; 26 giu 2 lug Dhaka

Video: 15 maggio Intervista con Desh TV, Satkhira ; 05-17 maggio Khulna, Satkhira e Bongshipur ; 11 maggio Khulna ; 15 maggio Rishilpi centre Satkhira ; 21-31 maggio Satkhira – Chittagong ; 09-18 giugno Bongshipur – Satkhira ; 10-20 giugno Bongshipur e Sunderban ; 26 giugno – 2 luglio: Dhaka

Goa, India 15 marzo 2011, 10:20 – Nell’itinerario studiato al tavolino nella mia camera sull’isola di Phu Quoc in Vietnam, il “misero” Bangladesh avrebbe dovuto essere solo una terra di passaggio tra “l’affascinante” Myanmar e “l’incredibile” India. Un paese dove l’acqua la fa da sovrana, quindi scomodo da percorrere in bicicletta, da attraversare al massimo in una quindicina di giorni. Ma, anche in questo caso, le cose sono andate molto diversamente dal programma e non avrei più voluto lasciare quel paese e la sua popolazione…

Il 6 maggio 2010, ho percorso gli ottanta chilometri che separano Calcutta da Banapole, posto di frontiera con il Bangladesh dove ho attraversato il confine tra i due paesi in pochi minuti nonostante la lunghissima fila al controllo passaporti, grazie ai doganieri che mi hanno fatto completamente saltare la coda. Entrare in Bangladesh è un po’ come tornare all’età del bronzo; tutto diventa più rustico, semplice, vicino alla natura e i segni della miseria sono ad ogni angolo di strada. Si capisce subito che questo è uno dei paesi più poveri al mondo anche dalla mancanza di tanti beni di consumo nei negozi, che pochi sarebbero in grado di permettersi. Questa è una terra di antica cultura che, come ci racconta l’epica induista del Mahabharata, nel nono secolo a. C. ospita il mitico regno di Varendra, conquistato dal principe Bhima unificatore dell’India del nord-est. Nel terzo secolo a. C., con l’imperatore Ashoka, diventa uno dei maggiori centri di studi buddhisti e ne resta una roccaforte sino al 12mo secolo, mentre il resto del Subcontinente si è suddiviso in aree a prevalenza induista o mussulmana. Quest’ultima fede comincia a diffondersi in questo periodo, propagata da alcuni missionari mistici Sufi, anche se prende definitivamente piede con la conquista militare di Mohammed bin Bakhtiar, che alla testa di una mini-armata di appena 20 uomini annette il Bengala al sultanato di Delhi. Il 16mo è il secolo dell’onnipossente impero Mughal ed età dell’oro per tutta l’India del nord. In particolare, in Bangladesh vengono edificate grandi città e forti, strade e ponti, moschee ed università; l’area entra a far parte di fiorenti vie commerciali ed una nuova vita culturale rigenera tutta la società. Quella che era l’immensa palude del delta del fiume Gange, diventa una delle gemme più luccicanti dell’India, tanto da abbagliare ed attrarre le potenze coloniali europee, a partire dai portoghesi, seguiti da olandesi e francesi, anche se furono gli inglesi a spuntarla e, nel primo decennio del 1700 proprio da qui, la Compagnia delle Indie Orientali cominciò l’infiltrazione nel Subcontinente. La minoranza induista della popolazione, concentrata nei centri urbani, ben presto si “anglicizzò”, frequentando le scuole dei colonizzatori e entrando a far parte dei quadri medi dell’amministrazione. Al contrario, i mussulmani non vollero mai assoggettarsi ai nuovi padroni cristiani e si ritrassero nelle campagne diventando principalmente piccoli proprietari terrieri e contadini. Con l’indipendenza al termine della Seconda guerra mondiale, questa spaccatura della società ed il timore della maggioranza islamica di essere soggetta ad una minoranza induista che aveva in mano le istituzioni politiche e l’amministrazione cittadina, portò alla partizione dall’India e l’unione con lo stato islamico del Pakistan. Così, l’area del Bengala venne denominata “Pakistan orientale”, di fatto creando un paese con due teste e senza continuità territoriale e, per giunta, amministrato da Islamabad, con la sola religione ad accomunare queste popolazioni, una situazione che non poteva durare a lungo. I pakistani propriamente detti si sentivano i padroni e misero in atto una politica marcatamente coloniale nei confronti dei bengalesi, tanto da arrivare a vietare loro di esprimersi nella lingua madre! Quest’ultimo iniquo tentativo di sottomissione fu anche la scintilla che accese la miccia della rivoluzione cominciata dallo sceicco Mujibur Rahman, vincitore nelle elezioni del 1971 di tutti i seggi del parlamento tranne uno, che, il 7 marzo a Dakha, dichiarò l’indipendenza del Bangladesh: “la terra di chi parla bangladese”. La reazione militare di Islamabad fu durissima, tanto da coinvolgere anche l’India che nel dicembre dello stesso anno invase e liberò il paese. Durante i nove mesi di conflitto, il numero totale dei morti ammonta a circa tre milioni, 10 milioni i profughi e 200.000 donne bengalesi furono stuprate dai soldati pakistani che utilizzarono la violenza sessuale come una vera arma di rappresaglia. Ma i primi anni dell’indipendenza furono quasi peggio della guerra: fazioni avverse si contendevano il potere e vari generali si alternarono al comando dello stato; tra il 1973 ed il 75 le carestie ridussero le campagne in sterili acquitrini; il paese mancava completamente di un suo sistema economico indipendente. Negli ultimi 30 anni, nonostante l’instabilità politica e le calamità naturali, le condizioni degli abitanti sono sensibilmente migliorate, basti pensare che negli anni 70 83% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà, oggi è ridotta al 40%. Certo, il paese si trova ad essere indipendente dall’India, con cui condivide storia e cultura, per la scelta di Lord Mountbatten, allora Viceré delle indie britanniche, di cedere alle richieste di partizione del Subcontinente in due stati: India e Pakistan, andando contro le risolute protesta del padre dell’indipendenza nazionale, Gandhi, che vi si è sempre dichiarato fortemente contrario, tanto da non presiedere personalmente alla firma dei trattati. Nel corso degli ultimi decenni, quell’errore dei colonizzatori in ritirata, è costato la vita a decine di milioni di esseri umani ed ha portato alla creazione di un’entità statale che non ha né le risorse e né le capacità economiche di supportare una popolazione di 150 milioni.

Tecnicamente, il Bangladesh è solo il quarto stato al mondo per densità di popolazione, ma considerando che i primi tre sono poco più che città, Monaco, Malta e Singapore, con 1090 persone per kmq questo paese è decisamente il più popoloso in assoluto. Questa massa umana l’ho percepita onnipresente in qualsiasi agglomerato urbano a cominciare da Jassore, dove mi sono fermato per un paio di giorni, fornendomi di una SIM telefonica locale indispensabile per collegarmi ad internet nelle aree rurali. Il 9 maggio mattina mi sono presentato all’ospedale Fatima per incontrare padre Pio, un anziano sacerdote italiano che vive da così tanti anni in Bangladesh che ha problemi a parlare correttamente la lingua madre. Il religioso mi ha dato l’indirizzo delle Sorelle Missionarie dell’Immacolata che gestiscono un lebbrosario del PIME (Pontificia Istituzione Missioni Estere) a Khulna, una cinquantina di chilometri a sud. Tramite l’AIFO, una delle organizzazioni partner di questo progetto, avevo preso contatto con suor Lorella, che però in quel momento era in Italia. Perciò, all’ospedale non c’era nessuna suora italiana, anche se ho ricevuto la telefonata di benvenuto da suor Samuela, la superiora dell’ordine che risiede a Dakha. Le due sorelle bangladesi (la crisi delle vocazioni si fa sentire forte anche qui!), suor Flora e una novizia suor Shimu, per cena mi hanno preparato un piattone di bucatini al pomodoro, conditi con vero parmigiano, che non avevano nulla da invidiare a quelli della madrepatria. Sono stato alloggiato nella cella 19 dell’adiacente convento, dove c’è un grosso crocifisso a capo letto con un Cristo particolarmente sofferente, una statuetta della Madonna che mi guardava benevolmente ed un adesivo sulla finestra con il Cristo contornato dalla scritta “Cuore di Gesù proteggimi tu”.

Ho trascorso la giornata del 10 maggio con la squadra di assistenza a domicilio, che svolge sia funzione di prevenzione, visitando famiglie nei quartieri più poveri dove, a causa delle pessima condizioni igieniche, i casi di lebbra e tubercolosi sono più frequenti, sia di seguire la convalescenza chi è stato colpito dal male ma non necessita degenza ospedaliera. La lebbra è una malattia che corrode gli arti e, di fatto, rende disabile chi ne è colpito, portando alla perdita delle dita dei piedi e delle mani. Le piaghe, che non si rimarginano facilmente, sono causa continua di infezioni in abitazioni dove ogni forma di batterio e germe fa una vita da sultano nel lerciume creato dalla convivenza in spazzi ristetti di capre ed animali da cortile con esseri umani. Sono buie catapecchie in mattone cotto ammassate l’una all’altra, in aree suburbane con fogne a cielo aperto e prive di acqua corrente. Almeno questi meschini hanno un tetto sulla testa e sono decisamente più benestanti degli altri milioni di cittadini bangladesi che vivono per strada in condizioni realmente degradanti, dormendo, mangiando, defecando, riproducendosi sotto gli occhi dei passanti che, anche se li guardano, non li vedono più. Hamed, il mio accompagnatore che parlava inglese, mi ha anche portato a vedere scuole per bambini diversabili; tutti piccoli istituti privati, dove non arrivano i soldi delle ONG internazionali, ma sono creati e tenuti su da volenterosi. Come le sorelle Rowjan Ara, che entrambe hanno avuto figli con disabilità ed hanno aperto una scuola con minimalista saletta di fisioterapia dove passano le ore diurne una trentina di bambini diversabili del quartiere. Purtroppo, ho anche visto un altro centro, gestito dal ramo maschile delle suore di Madre Teresa di Calcutta, dove i bambini erano rinchiusi in piccole celle con grate alle porte o legati alle sedie di una vasta sala, la scena più triste a cui abbia mai assistito in un istituto di questo tipo! Ho provato a parlare con il direttore, ma non era presente ed il frate responsabile mi ha risposto che questi bambini disturbavano quelli normali…

Al ritorno in ospedale, ho seguito le pie donne alla messa, a cui ho assistito più che partecipato, officiata dallo spassoso padre Margherito, messicano dell’ordine dei Saveriani che se non fosse stato chiamato dall’Alto sarebbe stato un comico di grande successo. Ho cenato con le suore che hanno aggiustato le pietanze bangladesi ai gusti occidentali riducendo fortemente le spezie nel curry e soprattutto il peperoncino piccante. Dopo cena, mentre stilavo queste note di viaggio nel salotto del convento, le religiose si concedevano un piacere molto terreno e materiale: la visione in televisione della 2895ma puntata della telenovella “Shuson Maniki”, la versione indiana di “Anche i ricchi piangono”! L’11 maggio sera, stavo preparando le borse per partire il giorno dopo, mi sentivo un po’ debole e, visto che mi trovavo in un ospedale, ho chiesto all’infermiera di turno di misurarmi la pressione sanguigna. Il risultato ha sorpreso entrambi: 70 di minima e 90 di massima! Ho sempre avuto la pressione bassa, ma con questi valori le sorelle non mi hanno permesso di partire il giorno successivo, costringendomi a restare un’altra notte. Sono stato accudito da suor Shimu che mi ha quasi imboccato come un bambino e fatto bere litri di sostanze reidratanti. Ho trascorso la giornata girovagando per i reparti dell’ospedale a parlare con i pochi ricoverati di lebbra e tubercolosi – qualcuno di loro, scambiandomi per un medico, mi ha chiamato “doctor” – sopratutto anziani sempre sorridenti, ma non mancavano giovani donne e persino una ragazzina sulla quindicina d’anni ridotta in carrozzina per una tubercoli alla spina dorsale. Questo è un periodo calmo perché non ci sono dottori, ma la situazione cambia, con i malati che accorrono anche da lontano, quando arrivano i medici volontari dall’Italia e torna suor Lorella, che è la primaria. Per un’oretta, sono anche stato ad osservare il calzolaio che confezionava scarpe e sandali su misura per i piedi deformati dei lebbrosi, mi ha anche proposto di farmene un paio, sicuramente sarebbero stati più comodi e resistenti di quelli in commercio, ma l’ho ringraziato rifiutando. La sera, ad una nuova misurazione della pressione, i valori erano 80-100, sufficienti per auto-dichiararmi nuovamente sano e pronto a ripartire il giorno successivo, anche contro il parere dell’infermiera. A cena, ho fatto la conoscenza con suor Elena, di origine partenopea che da una ventina d’anni vive a Khulna e di una volontaria italiana che mi ha parlato di Vincenzo e Laura. Questi sono due italiani che da 37 anni sono in Bangladesh ed hanno creato la Rishilpi, un centro per alleviare la profonda miseria degli abitanti del posto. Ho preso i loro numeri di contatto ed il 13 maggio, dopo un lunghissimo arrivederci, foto di gruppo con pazienti e suore, assicurazioni che mi sarei riguardato stando attento alla salute, ho inforcato il velocipede a pedali dirigendomi verso la cittadina di Satkhira, ad una sessantina di chilometri a sud-ovest, dove si trova la Rishilpi. La vicenda personale di Enzo e Laura, calabrese lui piemontese lei, ha un ché di romanticismo d’altri tempi: entrambi sono arrivati da queste parti nel 1973, lui come padre dell’ordine dei missionari Saveriani e lei suora di Maria bambina d’Asti. Oggi fanno una felice coppia di sessantenni, che per scelta non ha voluto avere figli propri ma ha adottato un orfanello. Non credo sia stato facile spogliarsi degli abiti talari quando l’amore l’uno per l’altra è diventato più forte della promessa di castità fatta con la presa dei voti. Sicuramente, nessuno dei due ha perso la fede che, al contrario, ha continuato a fare da guida nella loro esistenza vissuta da operatori umanitari e non missionari-evangelizzatori, quindi più liberi, senza i vincoli e gli obblighi della vita ecclesiastica. Enzo, da buon meridionale, è affabile e caloroso, spiritoso e divertente; Laura è amichevole ed ospitale, sorridente e materna, ed entrambi hanno conservato il modo di parlare, atteggiarsi e fare dei religiosi. Insieme hanno applicato un’innata dote imprenditoriale alla causa umanitaria riuscendo a mettere su un’impresa di artigianato locale che dà lavoro a centinaia di donne ed uomini della zona, migliorando le condizioni economiche di migliaia di persone. I proventi hanno finanziato la costruzione di quello che è oramai un villaggio con orfanotrofi, asili, scuole sino alle classi superiori, centro per bambini diversabili con attrezzatissime sale di fisioterapia, un piccolo ospedale con un vasto dispensario, un ostello per ragazze, un refettorio e laboratori artigianali. Laura mi ha fatto da cicerone in quello che è il suo regno fatto di classi colme di chiassosi bambini e mamme poco più che adolescenti che vanno da lei, chiamandola “nonna”, per curare i figlioli ammalati. L’intera struttura sembra quasi un’isola felice in un mare di miseria e sofferenza. Enzo ha anche approfittato della mia presenza per creare un evento mediatico organizzando una piccola cerimonia in cui le autorità locali mi hanno dato il benvenuto consegnandomi la bandiera del paese ed un ricco bouquet di fiori, il tutto registrato e trasmesso dalla rete televisiva nazionale Desh TV e riportato, con tanto di foto, sui giornali Jiugerbarta del 18 maggio e The Daily Ykafela e Potrodut del 17 maggio.

A cena ho fatto conoscenza con un altro ospite saltuario della casa: padre Luigi, un missionario Saveriano che sta dedicando la sua vita a favore della minoranza etnica dei Munda. La mattina seguente sono montato sulla motocicletta Honda del religioso che mi ha portato in un nuovo villaggio creato per una trentina di famiglie, che sino di recente vivevano su un’isola scomparsa a causa dell’innalzamento del livello dell’acqua dovuto al cambiamento climatico, di cui in occidente se ne parla tanto, ma che qui si vede concretamente. Ho accettato l’invito di padre Luigi di andare a passare qualche giorno da lui a Isshoripur, al limite della foresta di mangrovie del Sunderban, dove vive ancora la più numerosa popolazione di tigre Reale del Bengala allo stato brado. Così, il 16 maggio mattina mi sono diretto verso sud e, dopo una trentina di chilometri, sono stato bloccato dal signor Anzir Hossain, Coordinatore del DRRA (Disabled Rehabilitation & Research Association), che mi ha invitato a visitare il piccolo centro che offre sessioni di fisioterapia ed istruzione di base per una quindicina di bambini diversabili della zona.

All’ora di pranzo ho raggiunto la missione-masseria dove padre Luigi vive con una quindicina di ragazze dell’etnia Munda di età compresa tra i dieci e i sedici anni, sfuggite a matrimoni precoci combinati dalle famiglie. Qui sono sfamate, alloggiate, istruite e protette dalle vessazioni che il sesso debole riceve tradizionalmente in questi villaggi rurali dove botte, stupri ed incesti sono all’ordine del giorno, o della notte… Padre Luigi, che oramai chiamavo semplicemente con il nome di battesimo, è approdato in Bangladesh alla metà degli anni 70 e da una quindicina d’anni ha preso a cuore la causa dei Munda, un’etnia non indigena ai margini geografici e sociali del Bangladesh. I bangladesi li chiamano “Buno”, che è traducibile con l’eufemismo di “gente della foresta”, ma che in realtà vuol significare: selvaggi incivili inadatti a vivere in società! Nella rigida divisione delle caste induiste, dove ognuno deve essere posizionato ad un certo livello della piramide sociale, i Munda si trovano addirittura al di sotto dei Pariah, gli intoccabili già alla base della scala sociale. Etnicamente fanno parte del gruppo Proto-australoide, infatti hanno le fattezze del viso ed il naso schiacciato negroide e la pelle olivastra scura da farli rassomigliare agli aborigeni australiani, con cui sono geneticamente imparentati. Parlano un dialetto Mundari della famiglia linguistica Austro-asiatica, fatto che è un grosso ostacolo per l’accesso dei bambini alla scuola governativa e così il 95% è completamente analfabeta. Sono originari delle foreste del moderno stato Indiano del Ranchi, a circa 1000 chilometri di distanza in linea d’aria, dove tribù sorelle sono stanziate sin dal sesto secolo a. C.. Da lì a qui sono stati portati dagli inglesi che, a cavallo tra il 18mo ed il 19mo secolo, introdussero il sistema Zamidari (Jamidari in bengalese) che dava il possesso, ma non la proprietà che restava all’impero, di terre incolte a chi riusciva a sfruttarle, perciò i Munda furono deportati per strappare alla giungla ed alle tigri campi da coltivare e terreni edificabili. La ricompensa fu il riconoscimento della proprietà su piccoli appezzamenti nelle zone disboscate e gli inglesi contestualmente emanarono una legge che vietava ai non Munda di acquistare proprietà dei Munda, come misura cautelativa per evitare che si facessero ingannare. Ma con l’indipendenza, queste norme coloniali smisero di essere applicate e i tribali si trovarono senza titoli di proprietà per i territori che occupavano, che gli furono sottratti da bangladesi che legalmente se ne impadronirono. Al giorno d’oggi, i circa 4000 membri dell’etnia sono stanziati in 30 villaggi composti da 700 famiglie dislocate ai margini dalla foresta del Sunderban, dove vivono isolati ed ignorati sia dalla società bangladese che dal progresso globalizzante mondiale. Si sposano esclusivamente all’interno della tribù, considerata sacra, e gli sposi novelli costruiscono una loro capanna dove vivono con la prole non sposata, anche se i legami con la famiglia allargata restano strettissimi.

Ho subito avuto in buon feeling con questo missionario, originario delle rive del lago di Como, credo principalmente per il suo fare poco “religioso”, anche se continuava a svolgere tutte quelle attività legate al sacerdozio, come dire messa ed officiare i sacramenti. Nella sua missione-masseria erano quasi assenti i simboli della religione cristiana, fatta eccezione per una semplice crocetta di legno appesa alla parete in un angolo buio della sala da pranzo; niente preghiera di ringraziamento prima dei pasti, come era d’obbligo dalle suore; in generale, non c’era nessun tentativo di evangelizzazione delle ospiti, che conservano il loro induismo misto all’animismo, anzi, il religioso aveva persino scristianizzato un’intera comunità. I fatti sono che, un ventennio or sono, il villaggio Munda dell’area di Dudler Char, fu convertito da missionari Battisti, di fatto separando questo gruppo di famiglie dal resto dell’etnia. Al tempo stesso, questi nuovi convertiti non furono accettati dai bangladesi della stessa fede cristiana, che continuavano a considerarli selvaggi, dimostrando un sentimento affatto in sintonia con gli insegnamenti del Cristo. Nel giro di pochi anni, doppiamente marginalizzati, gli abitanti di Dudler Char arrivarono ad un vero isolamento che, tra gli altri problemi, portava i ragazzi di ambosessi a non trovare un partner da sposare. Padre Luigi fece da tramite tra i Munda cristiani e le autorità religiose di quelli pagani, perché i primi fossero riaccettati nel novero dei seguaci degli dei induisti. La cosa si risolse con un’intricata cerimonia tesa a placare l’ira delle divinità e degli spiriti offesi per il cambiamento di religione, offrendo loro sacrifici di sangue, principalmente un grosso maiale pagato dal missionario.

La zona dove sorge la missione ha una particolare importanza per la Chiesa, perché il 1° gennaio del 1600, nel villaggio di Isshoripur (dove già esisteva ed esiste tuttora un tempio dedicato alla dea Kalì), i missionari Gesuiti portoghesi inaugurarono la chiesa del Signore Gesù: il primo segno della Cristianità nella terra del Bengala. Di quella chiesa rimangono oggi solo pochi mattoni e padre Luigi mi ha mostrato alcuni pezzi portati dai contadini dove si distinguono ancora i fregi ornamentali della chiesa gesuita e le lettere IHS, In Hoc Signo.

Ho passato due giorni conversando in inglese con le fanciulle dall’ultima generazione Munda, che sono ospiti di padre Luigi, e che fanno parte del ristretto 5% di alfabetizzati di tutta la loro etnia. Durante la permanenza con loro, ho dormito nell’amaca legata ad una palma ed all’angolo della missione per meglio ammirare le stelle ed ho scorrazzato in moto con il sacerdote tra villaggi di una miseria sconcertante. Ho partecipato al matrimonio mussulmano del vicino, dove la sposa non si mostra in pubblico e la festa è riservata agli uomini. Ho anche cotto alla brace due grossi pesci Pangasio, senza utilizzare la graticola ma imbragandoli con il bambù secondo la tecnica laotiana, sconosciuta da queste parti e ciò ha attirato metà del vicinato che ha seguito con un’espressione scettica, ma con occhi attento, ogni passaggio della cottura, alla fine ne ho fatto assaggiare alcuni pezzi ai presenti, che hanno approvato il risultato. Qualcuno, stupito di vedere un modo di cuocere il cibo così semplice e naturale, ha chiesto a padre Luigi se noi in Italia cuciniamo sempre così. Il buon sacerdote ha sfoderato tutto il suo sarcasmo rispondendo che in Italia noi siamo ancora primitivi e non raffinati come loro che usano le pentole e le spezie!

Il 17 maggio, sono venuti quattro tedeschi accompagnati da altri tre bangladesi facenti parte di una missione per studiare come rendere eco-sostenibile l’allevamento di gamberetti con tecniche biologiche, per il bene dei consumatori europei. Dopo il tessile, l’industria dei gamberetti è la seconda del paese ed, in quel periodo, era in pieno boom con la domanda che superava l’offerta per rimpiazzare sul mercato internazionale il mancato pescato del Golfo del Messico, chiuso alla pesca per l’incidente al pozzo petrolifero della BP e la copiosa perdita di greggio che ne seguì. Per quanto sia una fonte di pregiata valuta estera, sta fortemente impoverendo le popolazioni che vivono lungo la costa, a cui sono stati sottratti terreni tradizionalmente utilizzati per la coltura del riso e delle verdure, uniche fonti di sussistenza. Le risaie sono state allagate con acqua marina, che avvelena il terreno rendendolo sterile per via del sale, lasciando i contadini disoccupati e costretti a comprare al mercato gli alimenti di base, trasportati sin lì dalle regioni dell’interno quindi più costosi, mentre i proprietari terrieri e gli allevatori di gamberetti, che normalmente vivono nelle città, registrano profitti record. Per questi ed altri motivi, padre Luigi, che non ha peli sulla lingua, ha sparato a zero contro quest’industria che, oltre a togliere la terra ai contadini senza creare un’alternativa di reddito, contamina anche le fonti d’acqua dolce potabile e le falde sotterranee rendendole salmastre. Il religioso proponeva di ritornare all’agricoltura tradizionale che almeno dava da mangiare a tutti, così i teutonici progressisti sono andati via per niente contenti di quello che avevano sentito, con la cresta bassa e forse pensando che quel vecchio prete-pazzo non era al passo con i tempi e, comunque, non sarebbe stato in grado di fermare il progresso! Personalmente, credo che debba considerarsi un comportamento criminale, perseguibile penalmente, quello di affamare la popolazione sottraendovi i mezzi agricoli di sostentamento tradizionali senza rimpiazzarli con altre possibili forme d’entrata in loco, e perciò costringendo i contadini ad ingrossare le file dei disperati che si spostano in città.

Lo stesso giorno, sono ritornato sui miei passi a Satkhira, e sono tornato ad essere ospite di Enzo e Laura al Rishilpi. Durante il trasferimento non riuscivo a togliermi dalla mente i volti di quelle ragazzine, ancora bambine, ma che hanno avuto un’esperienza di vita traumatica che le ha fatte diventare donne prima del tempo. Mi sentivo una stretta al cuore quando pensavo a loro e quello che hanno passato e così cominciò a balenarmi l’idea di fermarmi per qualche tempo per dare una mano a padre Luigi. In realtà, il missionario aveva gettato lì la lusingante proposta di trattenermi per alcuni giorni, ma io avevo un viaggio da terminare e non erano previste lunghe soste. Nella Cronaca (quasi) quotidiana di quel giorno ho scritto: “Questo viaggio mi sta trasformando, ne sto vedendo troppe di cattiverie e sofferenze dovute all’ignoranza e alla povertà, all’oppressione e all’ingiustizia; non sono più quello che ero sei mesi or sono”. E quel mio sentire da allora si è fortemente acuito, portandomi alla decisione di svolgere un attivo ruolo di volontario dove possibile, invece di essere semplicemente spettatore e divulgatore delle situazioni di cui ero testimone. Ne parlai con Laura, che prontamente mi incoraggiò a farlo, ed Enzo mi istruì su come andare nella capitale e rinnovare il visto turistico per un altro mese. Il mattino successivo mi svegliai con la risoluta determinazione di trascorrere buona parte del mese di giugno con le ragazze Munda da padre Luigi.

Perciò, il 20 maggio mattina di buon ora, senza salutare i miei ospiti che dormivano ancora, ho inforcato la bicicletta rifacendo la strada verso Khulna dove sono arrivato all’ora di pranzo e mi sono ripresentato al convento-ospedale dalle sorella del PIME. Le pie donne mi hanno accolto calorosamente ed ammesso alla loro mensa dove c’erano anche due dottoresse italiane, Angela e Simona, che da qualche anno scelgono di trascorrere le loro vacanze assistendo gli ammalati di lebbra e tubercolosi invece che in luoghi di villeggiatura. Sono ripartito subito dopo pranzo alla volta di Bagerhat, che ho raggiunto poco prima del tramonto, attraversando una terra assolutamente piatta e ricoperta di piantagioni della iuta, che in questa stagione raggiunge l’altezza di un paio di metri. Da qui comincia il vasto delta del fiume Gange con l’acqua che la fa da padrona e dove la strada è spesso interrotta dai larghi canaloni, dove il traffico terrestre si trasforma in marittimo trasferendosi su rugginosi traghetti. L’uomo ha pazientemente sopraelevato strisce di terra dove coltivare il riso ed allevare le vacche della razza zebù caratteristiche per la gobba prominente ed il colore bianco crema. Questo delta, se confrontato a quello a me familiare del Mekong, ha una vegetazione immensamente più lussureggiante, dove altre a palme e bambù ci sono un numero impressionante di alberi di alto fusto e legno duro, parecchio rari nel sud del Vietnam. Il tasso d’umidità è anche superiore, anche se l’ho sofferto poco perché ha piovuto buona parte degli ultimi giorni rinfrescando notevolmente la temperatura sia esterna che corporea.

Bagerhat, Bangladesh, 21 maggio 2010

Il 22 maggio alle 17:00 sono arrivato a Barisal dove finisce la terra e comincia il mare e, per andare a est, mi sono imbarcato sul traghetto che porta a Chandpur, sull’altra sponda della baia del Bengala. La navigazione dura quasi tutta la notte su un mezzo del secondo dopoguerra spinto da larghe pale a dritta e manca, mosse da un malandato motore diesel con la targa “Fabriqué à Gent, Belgique”. Mi sono venuti in mente i ruderi della fabbrica chiusa, che ho visto tante volte quando per lavoro andavo in quella città nel nord del Belgio. Come al solito mentre attendevo l’imbarco, ero circondato dall’abituale massa di curiosi che facevano commenti sulla bicicletta e qualcuno mi poneva le solite domande; mangiavo dei biscotti e ne ho offerti due ad Alì, un bambino di una decina d’anni, rasato quasi a zero e vestito solo di una maglietta e pantaloncini, senza scarpe, ma quello è normale. Il ragazzino mi ha fatto un grande sorriso, ha mangiato avidamente i biscotti ma ha rifiutato gli altri che gli ho passato. In questo momento uno degli scaricatori di porto gli ha dato uno schiaffone in testa, nell’indifferenza più totale degli altri spettatori, come si darebbe un calcio ad un cane randagio che ti ostruisce il passaggio! Ho fatto segno ad Alì di venirmi accanto, così nessuno lo avrebbe ulteriormente vessato, ed ho chiesto ad uno dei presenti, che parlava inglese, di farmi da interprete. Ho così scoperto che il bambino viveva per strada e non aveva famiglia. Al momento dell’imbarco, Alì mi ha seguito abbordo, nessuno gli ha chiesto il biglietto e gli ho preso una cuccetta adiacente alla mia. Ho visto il suo volto riempirsi di gioia, non poteva credere di poter dormire in un lettino tutto suo, con un materasso, lenzuola e cuscino; si è subito messo sdraiato, rannicchiato in posizione fetale e si è addormentato all’istante. Vederlo lì, dormire con un piccolo sorriso sulle labbra, felice per così poco, mi ha rattristato perché ci sono milioni di Alì in Bangladesh e nel mondo che in quello stesso momento subiscono violenze di tutti i tipi, dormono nell’immondizia e non raggiungeranno l’età adulta; non ho pianto, ma non sono riuscito a controllare una lacrima mi ha rigato la guancia sinistra. Per prendere un po’ d’aria, avevo l’intenzione di fare una passeggiata sul ponte del natante, strapieno in ogni ordine di posto, ma ho dovuto desistere e tornare al mio posto perché non si poteva muovere un passo su quel tappeto di centinaia di corpi umani sdraiati a dormire su tutte le superfici orizzontali disponibili. Non ho mai visto una nave profughi, tipo quelle che spesso approdano a Lampedusa, ma non può essere troppo diversa da quella su cui mi trovavo. Sbarcati a Chandpur, ho provato a dare qualche soldo ad Alì, ma lui li ha rifiutati! Mi ha preso per mano e mi ha portato a qualche isolato dall’imbarcadero dove c’erano altri bambini come lui che mangiavano da una gamella di riso e brodaglia vegetale. A quel punto ci siamo stretti la mano, l’ho abbracciato e lui si è seduto con gli altri ed ha cominciato a parlare animatamente, con entusiasmo giovanile, raccontando agli amici quello che gli era appena successo. Per il resto delle giornata e buona parte di quelle successive, i miei pensieri furono per quel bimbo sveglio, che era sopravvissuto per strada da piccolo e forse sapeva come cavarsela per diventare grande, senza essere mai stato veramente piccolo.

Quando ho raccontato sul mio blog di questo toccante episodio di viaggio, alcuni amici, commossi dalla situazione, si sono proposti di inviarmi dei soldi per “adottare” Alì. A prescindere dalle difficoltà logistiche mie di restare con il ragazzo, sono convinto che abbia molto più senso insegnare a pescare piuttosto che semplicemente regalare il pesce. Ma principalmente sono certo che il solo modo di aiutare veramente i milioni di Alì in ogni angolo della Terra, è di cambiare stile vita nel primo mondo, limitando il superfluo e gli sprechi, così da raggiungere una più equa distribuzione delle limitate risorse del pianeta. Mio nipote Francesco, il maggiore dei due figli di mia sorella, ha l’età di Alì. Conoscendo la mia sorellina, non può essere un bambino viziato, però basterebbe una frazione delle risorse inutili ed in eccesso, che gli vengono comunque dedicate e perse, ad assicurare un riparo ed un livello minimo di istruzione a milioni di fanciulli di strada.

Ho trascorso la notte del 22 maggio a Feni e la mattina seguente ho trovato un signore bangladese che mi aspettava vicino la bicicletta nel parcheggio dell’hotel. Alla mia vista mi è venuto incontro allargando le braccia con l’intenzione di abbracciarmi! Prima che lo facesse, gli ho intimato di fermarsi, gli ho chiesto chi fosse e cosa volesse!? Aveva letto la parola Italy sul telaio della bicicletta e così mi ha informato che due suoi fratelli lavoravano come maggiordomi a casa di una famiglia romana. Ed ha aggiunto “Loro sono molto ricchi, guadagnano mille euro al mese”; ho chiesto “A testa?”, mi ha guardato sorpreso per la domanda ed ha risposto “No, entrambi”; ho detto “Certo, 500 euro è un ottimo stipendio in Italia…” ed ho pensato: spilorci di romani!

Nel primo pomeriggio dello stesso giorno, ho raggiunto la periferia di Chittagong dove si trova il più grande porto mercantile del Bangladesh ed uno dei maggiori cantieri di smantellamento navale al mondo. Qui transatlantici da crociera, cargo ed ogni tipo di naviglio di gran stazza viene dismesso, smembrato e dissaldato da un esercito di lavoratori a torso nudo che ripuliscono cisterne che hanno trasportato materiali così tossici che solo a guardarli fanno venire un tumore maligno fulminante agli occhi! In Germania, dove ci sono altri cantieri navali di questo tipo, gli stessi lavori vengono svolti da operai che indossano tute protettive simili a scafandri, che proteggono più di quelle utilizzate dagli astronauti per passeggiare nello spazio. Ma, chiaramente, i costi sono ben diversi… Ciò che viene rimosso dai bastimenti è rivenduto in un mercato a cielo aperto che si estende per una decina di chilometri lungo l’autostrada N 1. È un paesaggio surreale dove si susseguono a perdita d’occhio, adagiate tra l’erba e parzialmente ricoperte dall’invadente vegetazione tropicale, scialuppe di salvataggio dal colore rosso vivo, motori grandi come piccole case, portelli ed oblò a tenuta stagna, letti e cuccette, lavandini, vasche e tazze da bagno, tavoli con le gambe che si fissano al suolo, cucine e lavabi d’acciaio, armadi di legno e ferro, eliche mastodontiche, ancore gigantesche e tutto quello che fa parte dell’arredamento di una nave per rendere il meno duro possibile la vita di bordo.

Sono stato a dormire a Chittagong, la prima città dove ho ritrovato alcuni segni della globalizzazione e di internazionalità dopo le ultime due settimane passate in puro territorio rurale bangladese. Il giorno successivo mi sono diretto verso l’estrema punta sud a Cox’s Bazar, a due passi dalla frontiera birmana, ma, dopo una quarantina di chilometri, sono dovuto ritornare sui miei passi perché, a causa delle forti piogge dell’ultimo paio di giorni e dell’alta marea, la strada era ricoperta da una ventina di centimetri d’acqua. Soffiava anche un forte vento da sud-ovest, coda del mini-tifone che aveva lievemente tempestato la costa e di cui, avvicinandomi a Cox’s Bazar, avevo subito gli acquazzoni periferici. Sono stato un’altra notte a Chittagong ed il 25 maggio mi sono diretto verso nord raggiungendo la cittadina di quattro milioni di abitanti di Comilla, porta esterna della capitale Dhaka. Gli insediamenti umani nella zona sono databili dal quarto secolo d. C., ma Dhaka muta in una vera città solo nel 1600, quando diventa la capitale amministrativa dell’area del Bengala durante la dominazione Mughal. Gli inglesi la declassano a capitale provinciale e resta tale sino all’indipendenza nel 1971, quando rifiorisce attraendo milioni di contadini, che lasciano la falce per prendere il martello, ed essere impiegati nell’industria tessile e nel tradizionale commercio di indaco, zucchero, tabacco e, naturalmente, iuta. È una città vortice, che ti circonda tutto il tempo con il traffico di 15 milioni di individui a stretto contatto l’uno con l’altro, indaffarati nelle loro attività. Uno scenario da girone infernale dantesco. All’ora di pranzo del 26 maggio, ho intravisto all’orizzonte i primi palazzoni della metropoli e tre ore dopo aver attraversando tutta la città da sud a nord, ho varcato la soglia dell’ufficio della MAC (Movement Against Conflicts). Il direttore, Belayet Hossain, mi aspettava impazientemente per andare a casa e godersi un lungo fine settimana, visto che i tre giorni successivi erano rispettivamente festa nazionale (il 27), venerdì (quindi festivo per i paesi islamici) e sabato (diciamo ponte…), dandomi così appuntamento a domenica 30 per discutere delle visite alle scuole. Un suo assistente mi ha gentilmente accompagnato al Sky Park Guest House, con cui aveva concordato la tariffa speciale di 19 dollari a notte per una camera delux-superior, superiore anche al mio budget normale, ma non si trova niente a meno nel lussuoso quartiere di Gulshan. Qui vive la comunità internazionale, per cui tutti i prezzi sono il triplo che altrove, i tassisti sono insistenti come in nessun altro posto del paese e le strade sono tappezzate di accattoni che sperano, in vano, nella generosità dell’uomo bianco, anche se la maggior parte di stranieri sono giapponesi, cinesi e coreani. Gulshan Avenue è un susseguirsi di palazzoni vetro-acciaio, sede principalmente di banche e società d’investimento. Ho assistito all’uscita dagli uffici degli impiegati, con i loro completi giacca-cravatta e le scarpe lucide, che si facevano strada tra i bambini nudi colpiti dalle impietose bastonate degli uomini della sicurezza che aprivano un varco. Sono rimasto a Dakha il minimo indispensabile per rinnovare il visto bangladese ed informarmi sul visto via terra per entrare in Nepal. Ho trascorso le ore meno torride della giornata passeggiando tra le luride viuzze della città vecchia a ridosso del fiume e nei sovraffollati mercati poveri di merci ma ricchi di un’umanità miserabile che si arrabatta a fare qualsiasi lavoro per sbarcare il lunario. Il 31 maggio, sono stato molto sollevato di lasciare Dhaka e, quasi letteralmente, rituffarmi nel Bangladesh rurale sotto una pioggia a catinelle che rendeva praticamente impossibile la vivibilità oltre i 10 metri. Le autorità competenti mi hanno rinnovato il visto per un altro mese, dandomi così la possibilità di svolgere un’attiva opera di volontariato, contribuendo in modo diretto ad un progetto e non semplicemente passando-pubblicizzando-ripartendo come ho fatto nei paesi precedenti. Questo paese mi ha messo una tale tristezza nel cuore, ma anche una grande voglia di aiutare e reagire a questa situazione disastrosa, che non potevo cavarmela con la mia coscienza semplicemente facendo il testimone oculare delle sofferenze altrui. Per la prima volta dalla partenza interrompo il viaggio per fermarmi a lungo in un posto, di fatto, facendolo diventare un’esperienza di vita nomade.

Ho preso la direzione sud-ovest, passando la notte nell’unica pensione della cittadina di Bangla, la più a buon mercato (un dollaro e cinquanta per la camera con il bagno), ma anche la peggiore topaia di tutto il viaggio. Il pomeriggio del primo di giugno sono arrivato a Khulna, dalle suore del PIME, dove le sorelle bangladesi mi hanno accolto con calore e simpatia, mentre suor Elena, è parsa subito scocciata della mia presenza, tanto che il giorno successivo a colazione mi ha chiesto, nel caso fossi tornato in quella città, di rivolgermi per l’alloggio ai padri Severiani. Durante la mia ultima visita, forse non le è piaciuta la mia critica al Papa, che in un recente discorso a Fatima, aveva enumerato i tre maggiori problemi che affliggono l’umanità individuandoli: nell’omosessualità, nell’aborto e nel divorzio! Ho trovato le parole del Santo Padre offensive nei confronti dei milioni di persone che vivono ai limiti della sussistenza e che avevo quotidianamente sotto gli occhi. Comunque, ho potuto constatare di persona che la chiesa, ed in particolare i missionari, sanno bene quali sono i veri problemi dell’umanità e si applicano con abnegazione e dedizione per meglio porvi rimedio.

Qualche settimana addietro, durante la mia prima visita a Khulna, notai varie palazzine moderne di vetro-acciaio con grosse insegne luminose che pubblicizzavano cliniche specializzate in malattie renali. Parlando con le sorelle ho avuto la conferma di qualcosa che già sospettavo: questi ospedali non curano affatto i reni, ma li estraggono da persone sanissime per venderli a facoltosi acquirenti nel primo mondo. Un altro esempio di come il rispetto per l’essere umano sia direttamente proporzionale ai suoi possedimenti e la povertà porta a vendersi pezzi di corpo pur di sopravvivere.

Bongshipur, Bangladesh 18 giugno 2010

Da Khulna sono passato a Satkhira, da Enzo e Laura alla Rishilpi, e, finalmente, sono arrivato a Isshoripur da padre Luigi e dalle quindici ragazze dell’etnia Munda sue ospiti. Ho imparato tutti i loro nomi ed un po’ delle loro storie personali: Minoti Munda, è la più grande, probabilmente 16 anni (nei villaggi non esiste un ufficiale dello stato civile che regista le nascite, quindi tutto è affidato alla labile memoria degli anziani), e fu la prima a scappare di casa costretta a sposarsi cinque anni prima. Forse sua coetanea Nilima Munda e poi le piccoline Titta Munda e Poppi Munda di una decina d’anni, che non sono scappate dalle famiglie, ma sono queste che le hanno affidate a padre Luigi, che le ha accettate alla sola condizione di non venissele a riprendere per maritarle prima dai 18 anni d’età. C’era Lumilla Munda, così scura di pelle e con i capelli ricci da sembrare una congolese, ma la mia favorita era Sompan Munda, circa tredicenne, una decina di centimetri più alta della media, con dei magnifici lineamenti del viso ed un’intelligenza superiore che le permetteva di raggiungere ottimi risultati scolastici in tutte le materie. Sono certo che se questa ragazzina si fosse trovata in un contesto diverso, ad esempio in occidente nata da una famiglia anche piccolo borghese, avrebbe potuto arrivare ad altissimi livelli scolastici e professionali. Per quanto non siano parenti, hanno tutte lo stesso cognome che corrisponde al nome dell’etnia, Munda, da quando il governo bangladese gli ha dato la cittadinanza si sono dati un nome di famiglia sconosciuto alla loro tradizione. Dalla mia ultima visita, si è aggiunta una ventenne, non Munda ma bengalese fuori-casta, Shuvodra Das, rifugiatasi qui da vicino Khulna dopo che la famiglia le aveva imposto uno sposo il doppio della sua età e senza alcuna istruzione, mentre lei aveva terminato le superiori. Ho anche avuto l’onore di conoscere Krisnapada Munda, l’unico di tutta la sua etnia ad aver conseguito un diploma da laurea universitaria, la persona più istruita di tutto il suo popolo! Che, con l’assistenza del missionario, stava creando un’organizzazione per aiutare la sua gente ad uscire da quella atavica condizione tribale, lo sentiva come un suo vero dovere morale e responsabilità personale.

Nei giorni precedenti, durante le lunghe ore passate pedalando, avevo riflettuto su come e cosa avrei potuto insegnare diversamente da padre Luigi. Soprattutto per l’inglese, volevo fare qualcosa di differente dalle solite lezioni di grammatica e conversazione; avevo avuto l’intenzione di mettere su una commedia teatrale, un “play” magari scritto dalle ragazze stesse, ma ho dovuto accantonare l’idea perché richiedeva troppo tempo. Allora, mi sono orientato verso la tecnica dell’ascolto delle canzoni, dando loro i testi con parole mancanti. Nelle due settimane in cui sono stato con loro ho proposto tra l’altro: Imagine di John Lennon, Blue Suede Shoes di Elvis Presley, Everything’s Gonna Be Alright di Bob Marley, Drive My Car dei Beatles, Message In A Bottle dei Police, What A Wonderful World nella versione cantata da Nat King Cole, che è più chiara della voce rauca di Luis Amstrong, e la romantica Blue Eyes di Elton John. Ben presto il religioso mi ha completamente affidato le lezioni linguistiche sia delle più piccole di età compresa fra i nove ed i quattordici anni, che delle grandi, che si sono appassionate alle canzoni perché ne capivano il testo. Mi sono occupato anche di insegnare i rudimenti dell’utilizzazione del PC ed ho iscritto Minoti e Nilima a Facebook. Queste studentesse, con la loro voglia di imparare per migliorarsi ed uscire dalla condizione di miseria in cui si trovano, farebbero la felicità di qualunque insegnate in Europa, che al contrario si trova difronte ad alunni svogliati, distratti e fannulloni, come d’altronde ero io stesso. Uno dei momenti della giornata che gioivo particolarmente erano le ore dopocena quando con l’erudito sacerdote ci lanciavamo in lunghe ed istruttive conversazioni teologico-politico-storico-filosofico-culturali sugli argomenti più disparati, oltre che istruirmi sulle abitudini e usi di quel popolo che lui ama sinceramente.

Nel giro di una settimana mi consideravo un membro di questa piccola comunità e due settimane dopo mi sembrava di esserci da sempre. Mi ero abituato alla routine degli orari dei pasti e delle lezioni, al piccolo stormo di germani reali dalla livrea policroma che nuotavano nel “pukur”, il laghetto scavato per raccogliere l’acqua piovana, e agli altri animali da cortile che scorrazzano liberamente nel perimetro della masseria. Ero diventato familiare anche ai due gatti ed altrettanti cani che puntualmente si presentano nella sala da pranzo al momento del rancio, agli abitanti delle case vicine e ai venditori ambulanti che quotidianamente proponevano uova così fresche da essere tiepide, pesci che respirano ancora, miele sottratto alle api della foresta ma, soprattutto, avevo vinto la diffidenza iniziale delle ragazzine. Credo che anche loro si siano abituate alla presenza di questo strano uomo bianco che gira il mondo in bicicletta, che ha un aspetto giovanile anche se in realtà è vecchio, “Ha più di 40 anni!”, che è gentile durante le lezioni ma che si arrabbia quando non fanno i compiti, che fa fare cose incredibili al computer e che prende in giro tutti ridendo come un cavallo.

Un giorno ho trovato nel magazzino una vecchia bicicletta da donna, l’ho messa a posto ed ho insegnato ad un paio di ragazze a guidarla; ho fatto una bella sudata a seguirle correndo ed una di loro è finita contro un grosso cactus con tanto di spine, procurandosi dei graffi alla gamba e al braccio destro. La fanciulla non ha emesso il minimo lamento, sopportando stoicamente il dolore anche quando l’ho medicata con un disinfettante a base di alcol denaturato che doveva bruciare come fuoco vivo, queste ragazze non sono certo avvezze ad inutili piagnistei. Oltre a studiare, le ospiti della missione svolgevano anche attività da contadine, coltivando l’orto da cui venivano le verdure e cereali che mangiavamo, accudendo le vacche e le caprette, spaccando la legna per cucinare, tutte incombenza a cui avrebbero comunque atteso nel loro villaggio.
Rovistando nella dispensa della cucina ho riesumato una scatola contenete formelle per fare ghiaccioli di cui anche padre Luigi aveva perso memoria; così ho preparato i gelati diluendo del succo di mango e sciogliendo nell’acqua una polvere al sapore d’arancia. Non ho mai visto delle espressioni di sincera gioia sui volti di bambini occidentali come sui visi di queste bambine quando hanno assaporato questi semplici ghiaccioli che per loro dovevano sembrare vere leccornie, ho provato una tale stretta al cuore per contentezza che stavo quasi piangendo. Da allora, ogni sera, le ragazzine preparavano i gelati che il giorno successivo metà di loro mangiava a pranzo, perché c’erano sette formelle per quindici ragazze. Sepolti su altri scaffali, ho trovato dei pacchi di pasta, barattoli di pelati e altro scatolame di origine italiana, così per alcuni giorni ho preso in mano la situazione in cucina ed ho preparato delle pietanze nazionali. Io e padre Luigi ci siamo leccati i baffi, mentre le ragazze hanno continuato a preferire il loro riso al curry alle penne col sugo rosso o ai tubetti con i fagioli. Tra gli animali della masseria, c’erano anche due gabbie con grossi conigli e grassi porcellini d’india, che ho convinto il missionario a lasciarmi cucinare e ne ho fatto uno stufato con le patate, che mi viene l’acquolina in bocca solo a pensarci, piatto apprezzato anche dalle giovinette che ne hanno leccato anche le ossa. Alla fine di ogni pasto, ognuna si lavava il proprio piatto utilizzando della paglia secca e la cenere del fuoco che, ho scoperto con mia grande sorpresa, sgrassa in profondità e fa diventare le pentole splendenti.

Padre Luigi mi ha spesso portato con se a visitare i villaggi da dove vengono le ragazze ed ho conosciuto qualcuno dei genitori, alcuni dei quali abitano le isole del delta raggiungibili solo via barca. Qui c’è anche la riserva naturale della foresta di Sunderban, l’ultimo santuario delle tigre Reale del Bengala, che talvolta entra in contatto con gli umani e le relazioni non sono affatto amichevoli. Siamo passati in un villaggio dove, alcune settime prima, uno di questi grossi felini aveva sconfinato, sicuramente spinto dai morsi della fame, ed era entrato nell’insediamento. Gli abitanti l’hanno rinchiuso in una capanna e chiamato la forestale, i cui agenti si sono presentati in giorno successivo, hanno constatato la situazione e intimato ai residenti di tenerla lì sino all’arrivo del medico con il sedativo tre giorni dopo. A questo punto, c’è stato un piccolo tumulto contro i forestali, perché nessuno si sentiva sicuro con quel gattone in una baracca da cui poteva scappare in qualsiasi momento e, quando questi se la sono data a gambe, l’animale è stato ucciso. In un altro caso successo non molto lontano da dove ci trovavamo, un pescatore a caccia di granchi ha invaso il territorio riservato alla tigre, che non l’ha tollerato e l’ha sbranato… Sin dalla scorsa stagione delle piogge, le terre dove sorgevano i villaggi sono coperte dall’acqua salmastra che le ha invase per il cedimento in vari punti dei tradizionali argini di fango. Situazione che avvantaggia i produttori di gamberetti, che, pare, osteggino la ricostruzione delle dighe per avere più terra a disposizione per espandere il loro business. Perciò, da quasi un anno, intere tribù hanno dovuto trasferire le capanne sull’argine stesso, senza possibilità di coltivare nemmeno un orticello e nutrendosi quasi esclusivamente di pesce e quel poco di riso portato dalla terraferma. Comunque, in questo ultimo scorcio di stagione secca, la maggiore privazione è la mancanza d’acqua potabile, che sembra un’eventualità impossibile in un paese dove ben il 7% della superficie è coperta dal fiume Gange. Non potevo credere ai miei occhi vedendo interminabili file di donne che aspettavano di riempire le loro anfore di bronzo ai rubinetti dei camion-cisterna dell’esercito, che quotidianamente trasportavano il prezioso liquido. Erano scene da Africa sub-sahariana, che avevo già visto in Sudan, anche se nel continente nero la mancanza d’acqua è endemica e per buana parte dell’anno, mentre qui la vera emergenza, per ora, dura un mesetto invece il resto dell’anno le abbondanti piogge creano il problema opposto delle inondazioni. Dai villaggi abbiamo preso un paio di ragazzine, una pressappoco tredicenne e cugina di Minoti, che non si erano mai allontanate dalla tribù, non erano mai salite su una moto o macchina e, per i primi giorni alla missione, erano incredule per quello che vedevano per la prima volta e talmente timorose delle nuove persone da cui erano circondate da non avvicinarsi a meno di un paio di metri dagli adulti.

Durante un giro per un piccolo agglomerato di capanne ai margini di una larga distesa d’acqua, una ragazza si è gettata ai piedi di padre Luigi implorandolo di aiutarla che si sentiva male. La madre ci ha informato che la disgraziata da poco era tornata da Khulna, dove aveva lavorato come sguattera per una famiglia, e continuava a perdere sangue, anche se non aveva più le mestruazioni, e per giunta si sentiva sempre debole e fisicamente debilitata. Con parole concitate, la figlia ha aggiunto che aveva sempre un forte mal di testa e che stava diventando pazza! Il missionario ha organizzato che andasse all’ospedale delle suore a Khulna per i necessari controlli ed analisi. Una settimana dopo la ragazza è tornata dalla clinica e si è installata con le alte; le sorelle l’hanno dimessa dopo aver constatato che le perdite di sangue erano dovute a lesioni vaginali causate da uno stupro, che lei ha ammesso anche se non ha voluto nominare l’assalitore, comunque oramai in fase di guarigione.

Fresco di nomina, il nuovo governatore del distretto ha organizzato un incontro con i rappresentanti dei villaggi Munda, invitando anche padre Luigi oramai considerato dal governo locale un referente per qualsiasi questione riguardante i tribali. L’ho seguito al meeting, dove sono stato scambiato per una qualche personalità e messo a sedere al tavolo degli oratori tra il missionario ed il governatore. Quest’ultimo mi ha pubblicamente ringraziato per svolgere lavoro di volontariato nel suo distretto e mi ha ceduto la parola! Con la traduzione simultanea di padre Luigi, dall’inglese al bangladese, per il beneficio della cinquantina di uomini e donne Munda con gli abiti tradizionali che facevano da audience, ho tirato fuori un piccolo discorso sull’importanza di mantenere le proprie radici culturali e diversità culturale, ricchezza per tutta la società, senza dover per forza rimanere attaccati al passato ma proiettandosi verso il futuro… niente di realmente nuovo ma mi è parso azzeccato al contesto. È seguita l’assegnazione degli oggetti ed animali che il governo centrale aveva programmato per l’etnia e la nostra Lumilla ha ricevuto una macchina da cucire, mentre a Krisnapada è stato destinato un maiale, ma mi ha detto che lo avrebbe subito venduto per acquistare un vitellino che a lungo andare, come mucca, avrebbe avuto molto più valore.

Il 13 giugno sono andato con alcune ragazze in un villaggio non lontano al matrimonio della cugina diciassettenne, nozze impedite da padre Luigi tre anni prima per la lampante immaturità fisica della sposa a portare avanti una gravidanza. Sono stato trattato come l’ospite d’onore, seguito ad ogni passo dagli occhi curiosi sia dei bambini che degli adulti; ogni volta che volevo sedermi mi portavano una delle quattro sedie del villaggio, di cui due erano riservate agli sponsali, e c’era sempre qualcuno che mi faceva vento con un grosso ventaglio di palma. Quello che ho trovato radicalmente diverso dai matrimoni sia europei che dell’estremo oriente è l’espressione triste che assume la sposa durante tutta la cerimonia, tanto da piangere grossi lacrimoni al momento di partire con lo sposo, mentre i parenti di lei urlano grida di dolore strappandosi i capelli per la disperazione, come in un funerale. Il concetto è che la famiglia della sposa perde una figlia più che acquistare un figlio, come invece si vedrebbe la questione in occidente e, quindi, la tristezza della figlia che si allontana dai cari gentori prevale sulla gioia di cominciare una famiglia tutta sua.

Con queste donzellette, che vengon dalla campagna, ho trascorso il giorno del compleanno più memorabile della mia esistenza. Il pomeriggio del 17 giugno, con tutte loro agghindate a festa con gli abiti migliori, ho preso un autobus che ci ha portato nel capoluogo di provincia, la cittadina di Satkhira a 60 chilometri di distanza. Per alcune di loro era la prima volta che percorrevano una distanza così lunga in autobus e che andavano in una città fatta di case in muratura invece delle capanne di fango secco dei loro villaggi, con negozi e vetrine, ristoranti, traffico stradale, donne ben vestite e così tanta gente che cammina per strada. La notte l’abbiamo trascorsa da Enzo e Laura che, nel campus della Rishilpi, hanno un piccolo ostello per ragazze. Abbiamo cenato alla mensa del centro dove i camerieri hanno servito le pietanze a tavola, cosa che ha sorpreso le ragazzine abituate al self-service, e poi ognuna di loro ha portato il proprio piatto vuoto al bancone, sorprendendo gli inservienti che avrebbero dovuto sparecchiare. Il 18 giugno, giorno del mio compleanno, a colazione mi hanno donato un mazzo di fiori di campo e le due sedicenni del gruppo mi hanno anche dato un bacio sulla guancia, cosa assolutamente impensabile nella loro cultura molto pudica. Poi, ci siamo tutti imbarcati su quattro rishaw a pedali e siamo andati a visitare un tempio induista, loro religione anche se frammischiata di elementi animisti, con le statue delle maggiori divinità dell’olimpo vedico. Per quasi tutte, era la prima occasione nella vita in cui si trovavano faccia a faccia con la dea Kalili, Shiva e Krishna, così colorate, decorate d’oro e sfavillanti. Al tempio è seguito un parco dei divertimenti, a dire il vero molto spartano e minimalista, immerso in un vasto giardino dove c’era un’altalena, scivolo, dondolo e poco più, ma per le fanciulle è stato meglio di qualsiasi moderna Disneyland. Abbiamo preso dei pedalò da quattro e cominciato a girare pacificamente in un laghetto; ad un certo punto, mi sono avvicinato ad una delle barchette ed ho iniziato a schizzare acqua contro le occupanti. Sulle prime, queste sono rimaste sorprese e sconcertate, ma hanno immediatamente risposto all’acqua cominciando un effetto a catena che ha portato ad una festosa battaglia navale dove tutti inseguivano e bagnavano tutti. Dopo gli urli del gestore dei pedalò, siamo sbarcati tutti zuppi ed io, con la faccia fintamente arrabbiata ho detto: “Ma chi ha cominciato?!”. A questo punto, l’intero gruppo mi ha puntato il dito contro replicando: “Tu hai cominciato!” e siamo scoppiati tutti a ridere. Risa che sono continuate per il resto della giornata, attraverso il pranzo in un ristorantino scelto da padre Luigi, sino al ritorno a casa dove le bambine sono state euforiche per tutta la serata, finché, si sono addormentate con il sorriso sulle labbra.

Con mia grande sorpresa, le ragazzine hanno fatto una colletta tra di loro rimediando abbastanza soldi per farmi un regalo di compleanno consistente in due piccoli e variopinti asciugamani per asciugarmi il sudore. Per la troppa emozione, non sono nemmeno riuscito a ringraziarle convenevolmente, ma le sorprese non erano finite. La sera precedete la mia partenza ero in camera organizzandomi per il giorno dopo, quando Titta, mi ha chiesto di seguirla nella veranda antistante il dormitorio, dove mi avevano preparato un trono decorato con fiori. Mi ci sono accomodato e, dopo avermi posto al collo una specie di collanone di fili dorati che reggeva un grosso pendaglio a forma di cuore, le ragazzine mi hanno deliziato con uno spettacolino di danze e canti della loro etnia accompagnati da padre Luigi alla fisarmonica. Il momento più toccante, con gli occhi che mi sono diventati lucidi per la commozione, è stato quando Nilima ha letto il messaggio in inglese, riportato qui di seguito, dove ho conservato i pochi errori di ortografia contenutivi:

Dear Matteo,
we have been in this place for several years but we have never met special visitor like you. You have come to Bangladesh from Vietnam riding your bycycle and your plan to return to your country in the same way. You have a lot of courage to do that and you will need planty of fhysical strenth as well. We wiss you greal adventure of yours. You have spent more than two weeks with us teaching us English and computer. On the occasion of your birthday you invited us to a picnic in Satkhira, which we enjoyed very much. We thank you for all this. Tomorrow you will be on the road again. We hope you will be able to reach your country safely. For sure you will remember us and we will not forget you. In future if you should not a girl friend and have a family one your own, you could come this part of the world to teach the Munda girls English and computer. We hope you will keep in touch. May the Lord protect you during your long travels.
Your friends from the Sunderban forest.

Caro Matteo,
è da vari anni che viviamo qui ma non abbiamo mai incontrato un ospite speciale come te. Sei venuto in Bangladesh inforcando una bicicletta con la quale tornerai nel tuo paese. Hai molto coraggio e avrai bisogno di molta forza fisica per riuscire in questa impresa. Ti auguriamo che sia anche una grande avventura. Hai trascorso con noi più di due settimane insegnandoci l’inglese e l’uso del computer. Per il tuo compleanno ci hai invitato per un picnic a Satkhira dove ci siamo molto divertite e te ne ringraziamo sinceramente. Domani riprenderai la strada e ti auguriamo di raggiungere la tua destinazione senza incidenti. Sicuramente, ti ricorderai di noi e noi non ci dimenticheremo di te. In futuro, se non metterai su famiglia, potrai ritornare in quest’angolo di mondo ed insegnare l’inglese e l’uso del PC alle ragazze Munda. Speriamo che continuerai a tenerti in contatto e che il Signore sia con te durante il tuo lungo viaggio.
Le tue amiche dalla foresta di Sunderban.

Le fanciulle mi hanno ancora fatto dono di un flacone di Autan repellente per le zanzare, una saponetta profumata al sandalo, forse segno che devo lavarmi più spesso! e una penna per continuare a scrivere questo diario. Mi mancheranno incredibilmente queste giovani donne che, nonostante la loro tenera età, mi hanno insegnato tanto sulla vita ed avrebbero esperienza da vendere alle loro coetanee occidentali. Dal canto mio, spero che aver trasmesso loro, più che qualche nozione della lingua inglese e del PC, la voglia di scoprire il mondo e di guardare oltre l’orizzonte, che non è un limite insuperabile, ma l’inizio di qualcosa da esplorare e di cui non bisogna mai aver timore.

Il giorno dopo ho ripreso a pedalare sull’asfalto ruvido e sconnesso in direzione di Satkhira, con i visini scuri e gli occhioni vispi delle ragazzine che mi balenavano davanti mentre in testa continuavo un dialogo con loro. Trascorsa la notte alla Rishilpi, il 22 giugno di buon ora, mi sono incamminato verso est, ripercorrendo la strada che un mese prima mi aveva portato a Chittagong via Barisal, il porto fluviale dove conobbi ed adottai per una notte il piccolo Alì. Questa volta, mi sono imbarcato sul lussuoso traghetto che fa la spola con Dhaka, approdandovi il giorno successivo alle prime luci dell’alba. Grazie a padre Luigi, che mi ha raccomandato, sono stato ospite dei suoi confratelli Saveriani ed ho fatto conoscenza con padre Giuà, al secolo Giovanni, un salernitano verace con tutta quella carica di calore umano e di simpatia tipica di noi meridionali. Giuà, che è mio coetaneo, con quel suo fraterno modo di fare, presentandolo quasi come uno spettacolo folcloristico, è riuscito a portarmi a messa per ben due volte in due giorni e con questa fanno tre nell’ultimo mese, una volta in più che negli ultimi 20 anni, ma un posto letto a Dhaka vale una o anche due messe… A dire il vero, la cerimonia di diaconizzazione di sette bangladesi diocesani a cui ho assistito è stata molto interessante per il sincretismo tra il protocollo cattolico-apostolico-romano con la tradizione induista di offrire la noce di cocco contenete l’acqua simbolo di purificazione e dipingere il viso dei fedeli con polveri policrome.

Credo che dopo la Corea del nord ad Israele, l’India segua nella lista dei paesi più difficoltosi per ricevere un visto di transito. Per quanto la mia fosse una richiesta abbastanza particolare, attraversare in bicicletta la striscia di terra indiana tra l’estremo nord del Bangladesh e il sud-est del Nepal, mi sono dovuto presentare tre volte in quattro giorni all’ufficio consolare della High Commission per dare dettagli sull’itinerario che seguirò comprese le eventuali soste per mangiare, dormire e fare pipì. Comunque, alla fine mi hanno concesso tre giorni per coprire i 200 chilometri tra i due punti di frontiera. Oltre a passare il tempo nei consolati indiani e nepalesi, in quei giorni ho tradotto i capitoli del diario in inglese e spesso ho sorriso a quello che avevo scritto mesi or sono e all’uso disinvolto del futuro quando parlavo del programma o dell’itinerario che pensavo di seguire, e come poi le cose sono andate diversamente. Sto anche scoprendo un nuovo mondo: quello dei giovani missionari. Lo stereotipo dell’evangelizzatore ad ogni costo, con il cappello di paglia e l’abito talare non corrisponde più alla realtà dei fatti. Padre Luigi mi aveva già dato l’impressione di un uomo poco religioso nelle forme esteriori e niente affatto fanatico, più un operatore umanitario che un soldato della fede. Niente preghiera prima di mangiare, niente segno della croce a ogni piè sospinto, niente messa quotidiana, nessuna edificante lettura dell’Osservatore Romano o baci alle figurine dei santi e Madonna, come avevo visto fare dalle suore a Khulna, ma si sa che le donne sono più radicali ed estremiste degli uomini. Credevo che padre Luigi, visti i suoi venerandi 60 e più fosse oramai stanco di queste liturgie e badasse più al sodo che alla forma. A Dhaka sono stato in contatto con sui confratelli Saveriani miei coetanei e, da questo punto di vista, sono peggio di lui! Ho cenato con alcuni di loro di nazionalità italiana, indonesiana ed un brasiliano, ed ho trascorso una delle serate più divertenti degli ultimi anni parlando di argomenti profani tra un bicchiere di gin & tonic, uno spaghetto alla bottarga e la partita Brasile-Portogallo. Dopo queste esperienze ho fortemente rivalutato i chierici missionari anche se non credo di poter cambiare idea sugli alti papaveri delle curie.

Il 28 giugno suor Juliane, una neozelandese svitata come la maggior parte dei suoi connazionali, mi ha portato in un centro di riabilitazione psicomotoria dove c’erano una decina di madri, di cui la più anziana non aveva 19 anni. Ognuna era con il figlioletto diversabile e tutte erano scappate dai mariti che avevano cercato di ammazzare i bambini. Purtroppo qui la nascita di un disabile è vista come una maledizione divina per aver commesso qualcosa di malvagio, in realtà, mi spiegava la sorella, il fatto che queste ragazze abbiano portato avanti la gravidanza in età così giovane, con il loro bacino non ancora pienamente formato per ospitare il feto, è stata molto probabilmente la causa principale delle malformazioni dei bambini.

Il giorno seguente, padre Giuà ha organizzato un incontro con l’associazione degli studenti cattolici. C’erano una decina di ventenni di ambosessi nella saletta adiacente la chiesa e, dopo aver mostrato i video più significativi, scegliendo quelli delle visite ai centri e quelli del nord della Thailandia e del Myanmar dove si vedono le montagne che sono completamente assenti nel piatto Bangladesh, ho fatto una presentazione del progetto a cui sono seguite le domande. È stata un’esperienza interessantissima per me e di successo per il missionario che ha tratto dei valori cristiani dalle mie parole, il tutto si è ripetuto l’indomani davanti ad una platea di un centinaio di studenti di un collegio cristiano.

Ho trascorso delle rilassanti, produttive e salutari giornate a Dhaka ospite dei padri Saveriani, a cui vanno i miei più sentiti e sinceri ringraziamenti, per avermi insegnato tanto sul Bangladesh e sul loro lavoro umanitario e per avermi ben nutrito facendomi mettere su almeno quattro chilogrammi da smaltire per raggiungere il tetto del mondo. Comunque, con mio grande sollievo, il giorno 6 luglio ho lasciato l’affollata, caotica, sporca Dhaka con altre due pagine del passaporto occupate da esotici adesivi, il primo valido come lasciapassare attraverso la striscia d’India che divide per un centinaio di chilometri il Bangladesh dal Nepal, il secondo mi concede di soggiornare per un mese in quest’ultimo paese.

La mattina del 7 luglio, ho attraversato il confine bangladese a Burimari, lasciandomi alle spalle strade quasi deserte se non per mezzi a pedali e sono entrato in India dove per 150 chilometri ho dovuto difendere il mio spazio sull’asfalto da automobili, camion e motorini. Questa diversa tipologia e livello di traffico indicano la differenza di reddito pro-capite tra i due paesi, perciò gli indiani considerano i bangladesi i loro cugini poveri. Passata la notte a Silinguri, il giorno successivo ho fatto rotta per il confine nepalese ad una quarantina di chilometri, attraversando piantagioni di tè che si perdono a vista d’occhio sui pendii che dolcemente salgono verso le montagne himalayane. Il Nepal mi ha fatto subito una magnifica impressione di calma e tranquillità, tipico dei posti di montagna e delle popolazioni che ci vivono. Mi sono presto sentito a mio agio con questi montanari per niente invadenti e pacifici, dai tratti somatici delle etnie del ceppo sino-tibetano ma con la pelle molto più scura e gli occhi appena più grandi. Forse, dopo aver vissuto sei anni nel Sud-est asiatico, trovo le gente con gli occhi a mandorla più familiare degli indoeuropei.
Ma i sei mesi che ho trascorso nel regno delle montagne ve lo racconto la prossima volta.

Fotografie: 10-13 maggio Khulna centres + PIME hospital ; 15-18 maggio Sakthira Villaggio Munda + intervista DeshTV ; 15 maggio Sakthira Visita centro Rishilpi ; 21 maggio 16 giugno: Sakhtira – Chittagong – Bongshpur ; 6-18 giugno Scuola gruppo etinico Munda, Isshadipur ; 26 giu 2 lug Dhaka

Video: 15 maggio Intervista con Desh TV, Satkhira ; 05-17 maggio Khulna, Satkhira e Bongshipur ; 11 maggio Khulna ; 15 maggio Rishilpi centre Satkhira ; 21-31 maggio Satkhira – Chittagong ; 09-18 giugno Bongshipur – Satkhira ; 10-20 giugno Bongshipur e Sunderban ; 26 giugno – 2 luglio: Dhaka

One Response

  1. Ciao Matte ! Saw those pictures so beautiful you doing such a fantastic thing . Wish you all the best we all miss you .
    Phally Cambodia .

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